Luca Giuliano
La narrazione collettiva: modelli ludici di fantasia
Incontri internazionali di Castiglioncello IL BAMBINO FANTASTICO
Castello Pasquini - 5/6/7 Maggio 2000 - Castiglioncello
(Grosseto)
Il gioco ci riguarda tutti, come bambini e come adulti. Siamo
circondati dal gioco. Nessuna società prima della nostra ha
attribuito tanta importanza al gioco. Anche se alcuni si
ostinano a considerare le attività ludiche come attività
marginali, come una parentesi nella serietà della vita, possiamo
osservare intorno a noi una crescita continua della spazio
riservato alla ricreazione e al divertimento. Non mi
riferisco, ovviamente, alle occupazioni infantili. Mi
riferisco al gioco di scommessa, ai quiz televisivi, alle
competizioni sportive, ai video-games e ai
computer-games, tutte attività svolte in gran parte dagli
adulti. Mi riferisco anche alla "società del divertimento",
sottoposta ad una critica feroce da Ermanno Bencivenga [1995]:
quel gioco urlato, brutale, ossessivo, celebrato da esperti
showmen che ogni giorno sacrificano il buon gusto e la
fantasia sull'altare dall'audience. Qualcuno parla di
"sindrome di Peter Pan", come per segnalare l'insorgenza di
una patologia che costringe gli adulti a restare
bambini.
La questione è complessa. La dimensione del
gioco è troppo importante per la condizione umana per essere
presa alla leggera. Il gioco ha acquisito una dignità autonoma
nella riflessione filosofica e sociale solo a partire da XVII
secolo [Duflo, 1997]. Nelle società aristocratiche, in cui il
lavoro è svolto dagli schiavi, dai servi e dai contadini, il
tempo del gioco e del divertimento si sovrappone al tempo del
lavoro, non ne rappresenta il complemento. Il dominus non lavora.
Festività religiose, eventi pubblici e momenti di ritualità
collettiva sono un tutt'uno con il lavoro e con il gioco.
Il
gioco si costituisce come oggetto sociale nella civiltà che nasce
dalla rivoluzione industriale attraverso la separazione netta tra
gioco/svago e lavoro [Turner 1986:70]. Nella società borghese lo
spazio del lavoro è dominato dalla razionalità tra mezzi e fini,
dalla oggettività del mondo, così come il lavoro intellettuale, lo
studio, è applicazione mentale, meditazione, ricerca, riflessione.
Lo spazio del gioco invece è dominato dalla soggettività, è
libero da costrizioni, è volontario, affidato allo scherzo, alla
burla, all'allegria.
Il gioco, al di là della consueta
dimensione infantile, si presenta con i tratti di una
attività eversiva e inconciliabile con il lavoro e
con lo studio. La chiesa e lo Stato sono severi con il
gioco di carte e con il gioco dei dadi. Jean Jacques Rousseau
condanna il gioco dell'adulto [Emilio o
dell'educazione, 1762, libro IV] e lo stesso
Diderot mette in guardia i mariti delle mogli troppo
attratte dal gioco [Les Bijoux Indiscrets, 1748,
cap. V]. Kant
ritiene che l'apprendimento culturale, come il lavoro,
debba essere costrittivo affinché i bambini si abituino
alla coercizione sociale: il tempo della ricreazione e il
tempo del lavoro devono essere separati [Riflessioni
sull'educazione , 1803].
E' solo dalla fine
dell'Ottocento e soprattutto dalla prima metà del Novecento,
che questa opposizione tra razionalità organizzativa
del lavoro e cedimento emozionale del gioco viene messa in
dubbio per opera di autori come Schiller,
Nietzche, Freud, Huizinga, Winnicot, Caillois.
Per questi autori, con tutta la diversità di
pensiero che li contraddistingue, il gioco non si presenta più come
una parentesi e un divertissement, ma come una premessa della
razionalità: esplorazione dell'ignoto, pulsione di vita, istinto
delle combinazioni, fonte di creatività e di innovazione, ebbrezza
dionisiaca e infanzia del mondo dal quale emerge il Lògos , il
sapere ordinato delle parole e delle cose.
E' stato Friedrich Schiller (Lettere sull'educazione
estetica dell'uomo, 1795) a indicare il gioco come terza via tra
la condizione naturale e la condizione morale in grado di conciliare
la supremazia del desiderio e del particolarismo con la supremazia
della ragione e dell'universalismo. Il gioco secondo Schiller
armonizza queste due tendenze attraverso un rapporto di reciprocità
che non è un "dato di fatto", ma deve essere conseguito in vista
della realizzazione di una completezza dell'uomo. In Schiller questo
obiettivo si esprime nelle qualità estetiche, nel perseguimento
della bellezza e dell'amore. L'amore in quanto desiderio è una
sottomissione della ragione alla natura, ma nello stesso tempo
l'amore è anche rispetto e quindi sottomissione della natura alle
leggi della ragione (Duflo, 1997:
111).
Mi sono soffermato più a lungo sulla concezione
del gioco in Friedrich Schiller perché noi oggi siamo più che mai
oltre quel confine che Schiller ci ha indicato. Ciò non è accaduto
in conseguenza di un progetto educativo e nemmeno per una scelta
consapevole. Noi ci troviamo oggi in un territorio in cui la
demarcazione così consueta e scontata tra gioco e lavoro è saltata
sotto i nostri occhi, sebbene la maggior parte di noi non se ne sia
accorta. Siamo forse diventati tutti "giovin signori" di una società
neo-aristocratica in cui solo le macchine lavorano e gli uomini si
dedicano alle lettere e alle arti? Evidentemente no, anche perché il
nostro punto di vista è quello un po' parziale delle società
post-industriali che celebrano a gran voce passaggi "epocali" privi
di significato per la maggior parte delle popolazioni della Terra.
Cerchiamo di non dimenticarlo in un eccesso di orgoglio
occidentale. Il fatto è che la
suddivisione tradizionale tra un'attività dominata dalla pena e
dalla fatica (il lavoro), fondamentalmente accettata per
l'acquisizione delle risorse e il perseguimento degli interessi, e
un'attività basata sul piacere e sulla libera scelta (il gioco) è il
frutto di una economia dei beni materiali che si esercita in quello
che Pierre Lévy chiama lo Spazio delle Merci (Lévy, 1996), uno
spazio sociale definito dalla produzione e dal consumo.
Noi oggi stiamo vivendo invece una mutazione
antropologica che ci vede immersi e coinvolti sempre più
massicciamente nel processo di virtualizzazione della realtà, in uno
spazio definito dalle reti digitali, dalla vita artificiale, dal
ciberspazio, dalla economia dei servizi e dall'informazione. Questo
spazio è dominato dalla simulazione e dalla fiction, dai mondi
immaginari della politica, della scienza, della cronaca. In esso non
accadono degli eventi, ma gli eventi vengono "rappresentati" e
acquisiscono un dato di realtà in quanto entrano a far parte della
narrazione collettiva. Jean Baudrillard in tre saggi apparsi durante
la guerra del Golfo afferma - paradossalmente - che la guerra non
c'è mai stata, la sola cosa che è "realmente" esistita è la messa in
scena di una guerra, la simulazione di essa sugli schermi televisivi
di tutto il mondo. Forse potremmo dire lo stesso per la guerra in
Yugoslavia, per la miracolosa cura Di Bella, per il bambino Elian
conteso tra Clinton, Fidel Castro e i profughi cubani.
Molti forse ricorderanno
un film, Capricorn One, in cui per non ammettere il fallimento di
una missione su Marte, la Nasa mette in scena l'impresa simulandone
il risultato ad uso e consumo della televisione. I telespettatori
assistono all'evento tramite un filmato e non possono percepire la
differenza tra "realtà inventata" e "realtà televisiva"
semplicemente perché non c'è alcuna differenza. Un tecnico della
NASA che lavorava alla missione Apollo all'epoca dello sbarco sulla
luna, ha pubblicato un libro nel 1997, in cui sostiene che questo è
proprio quanto è accaduto. L'atterraggio sulla luna è stato un
enorme imbroglio.
Vero? Falso? E' vera la
versione della Nasa, quella cui tutti noi crediamo? O è vera
la versione di Bill Kaysing, l'autore di questa denuncia? Molti
americani sono disposti a credere alle parole di Bill
Kaysing.
La fiction ha divorato l'informazione. La fiction è un grande
gioco condotto dai mandatari della massa: i registi del cinema e
della televisione, i giornalisti, i politici, gli scrittori, gli
attori, i presentatori, incaricati per noi o da noi di raccontarci
una storia, di dare un senso al flusso caotico della nostra
vita quotidiana. Attraverso di loro noi diventiamo i personaggi di
una narrazione collettiva che i mezzi di informazione-spettacolo
vanno a rappresentare.
E' in questo spazio digitale che
dobbiamo collocare la nostra riflessione sul gioco e sulla fantasia.
Schiller ha avuto la sensibilità di intuire con molto anticipo le
potenzialità educative insite nella nozione di gioco, ma la
tendenza alla reciprocità che egli indicava come via maestra verso
la realizzazione dell'uomo "totale" non emerge
automaticamente. La confusione tra lavoro e gioco, tra realtà
e apparenza, può sconfinare facilmente tra l'accettazione volontaria
della menzogna (la sospensione dell'incredulità che è alla base del
gioco e della fiction narrativa) e l'uso della menzogna come
strumento di potere (l'inganno che permette l'acquisizione di un
vantaggio non legittimo al servizio di un interesse).
Il
gioco è sempre un atto comunicativo. Presuppone la presenza di un
Altro. Anche quando l'Altro non c'è il gioco lo inventa facendo sì
che il gioco stesso diventi l'Altro. Nel gioco in solitario il
"gioco" si costituisce come compagno o come avversario.
Il
gioco nasce come attività aggregante, che presuppone una comunità di
giocanti. Uno dei primi giochi nella storia dell'umanità è il gioco
dell'attore, il gioco di "colui che viene guardato mentre gioca"; il
narratore che racconta le storie intorno al fuoco e condivide il suo
mondo immaginario con gli ascoltatori. Questa condivisione, che
implica almeno due persone che giocano insieme, permette di
distinguere, secondo Winnicot (1971:69) tra l'immaginazione e la
fantasticheria.
La fantasia immaginativa stimolata dal
gioco, condivisa e negoziata nel rapporto con gli altri, arricchisce
la vita con nuovi significati e offre spunti all'azione. La
fantasticheria è invece il prodotto di un isolamento, un sogno ad
occhi aperti che si sostituisce all'azione, che la inibisce fino ad
interferire con l'equilibrio psichico della persona. L'alienato non gioca. Anche quando crede di
giocare è prigioniero dei propri fantasmi. Vive pensando che la
realtà sia così come lui la vede. Confonde la realtà percettiva con
la realtà soggettiva. Rifiuta l'alterità; rifiuta la comunicazione
con l'altro, e così facendo si mette fuori del gioco. E' per questo
che Winnicot vede nello psicoterapeuta colui che mette il paziente
in grado di giocare, cioè che lo porta a recuperare la sua
dimensione immaginativa condivisa.
Il gioco non è assenza di regole, ma accettazione volontaria
delle regole. La regola si presenta nel gioco come prodotto della
creazione e come suo presupposto. Come struttura della lingua che
permette ai parlanti di conversare. Come parola dei conversanti che
permette alla struttura della lingua di essere unica e
riconoscibile, stabile e mutevole, identificata singolarmente e
prodotta collettivamente.
Gioco, linguaggio, comunicazione,
regola, comunità di giocanti, creatività e immaginazione, sono
termini che si adattano particolarmente bene alla descrizione e
all'analisi dei giochi che Caillois, nella sua classificazione
antropologica, ha chiamato: giochi di mimicry.
La
mimicry è l'accettazione temporanea di un universo convenzionale
in cui diventare personaggi illusori: il piacere di essere un altro
o di farsi passare per un altro; di essere in un altro luogo e in un
altro tempo. Il piacere di essere altrove. La mimicry è il "facciamo
che io ero.", la metamorfosi, l'assunzione di ruoli fittizi ma anche
l'acquisizione di una consapevolezza dell'esistenza di questi ruoli,
che molti ritengono a fondamento del processo di socializzazione
(Mead, Bateson). Attraverso la mimesi il giocatore finge di
essere un altro, impone a se stesso e agli altri uno stato di
sospensione dell'incredulità. La "pulsione imitativa" è alla base
della creazione narrativa e del dramma. Ogni gioco è di per sé
rappresentazione di un mondo; il gioco della mimesi è sempre
rappresentazioni di un mondo narrativo, un mondo fatto di personaggi
e di storie che scaturiscono da questi personaggi, dai loro rapporti
con il mondo e dalle reciproche interazioni.
La natura
sociale della mimicry impone al gioco una disciplina. Il
gioco è una in-lusio, una entrata nel ludus, un
sottoporsi a delle convenzioni arbitrarie. Il ludus comporta
l'accettazione ostinata delle regole, così come il giocatore di
scacchi accetta il movimento inconsueto del cavallo sulla
scacchiera. Perché lo fa? Perché desidera restare all'interno del
cerchio magico che permette al "mondo degli scacchi" di esistere. Il
giocatore accetta l'ostacolo fittizio delle regole per esercitare le
sue capacità di dominio sul quel mondo. Il ludus
garantisce al giocatore-attore-narratore che egli sarà in grado di
conservare il controllo sulla moltiplicazione delle identità. Lo
rende consapevole della finzione e della presenza di una
maschera.
Il gioco di mimicry ha assunto una forma codificata
dalle regole nel 1974, con la pubblicazione del Gioco di Ruolo (GdR)
Dungeons & Dragons , di Gary Gygax e Dave Arneson. Da
allora si è affermato prima nel mondo anglosassone e poi in Europa,
diffondendosi come attività di svago soprattutto tra i giovani e in
misura minore tra gli adulti.
Il GdR è una sorta di macchina
per raccontare le storie e farle vivere ai giocatori come
"avventure". Si tratta, generalmente, di storie avvincenti,
insolite, ispirate a vicende epiche, alla fiction popolare nata tra
la fine dell'Ottocento e la prima metà del Novecento, oppure tratte
dal fumetto e dal cinema.
Il GdR, nella sua versione
classica, permette a un certo numero di giocatori seduti intorno a
un tavolo di assumere i ruoli di personaggi immaginari e di farli
muovere più o meno liberamente all'interno di un mondo narrativo
rappresentato dal Master. Il GdR crea una situazione di
coinvolgimento del giocatore attraverso il personaggio che egli
interpreta, anche perché la simulazione è strutturata, la creazione
del personaggio è volontaria e personalizzata, le conseguenze delle
sue decisioni sono "vere" all'interno della realtà immaginaria del
gioco, e l'ambiente, rappresentato dal Master, reagisce in modo vivo
e intelligente alle sollecitazioni. Con una formula sintetica
possiamo dire che il GdR, in massima parte vissuto e agito dai
giocatori attraverso la parola, crea una realtà condivisa nella
forma di un universo discorsivo dotato di significato. Inoltre la
creazione e il mantenimento di questa realtà fittizia è distribuita
tra i partecipanti. I giocatori non "recitano", come alcuni
superficiali osservatori credono senza avere una esperienza diretta.
I giocatori di ruolo "interpretano", agiscono nel quadro di una
performance che li vede protagonisti di una negoziazione della
realtà immaginativa insieme agli altri giocatori e al Master
stesso.
Nella evoluzione più recente del GdR questa tendenza
"narrativa" si è accentuata, forse anche perché la parte più
meccanica del gioco inteso come problem solving è stata
assorbita dal gioco di avventura per computer. Inoltre si sono
diffusi modi di gioco "dal vivo" che mettono in maggiore evidenza
l'aspetto teatrale e, in alcuni casi, anche il travestimento. Oggi
preferisco chiamare queste attività con il nome di "giochi di
interpretazione" o "giochi di performance". Ciò che mi
interessa sottolineare è il fatto che questo tipo di giochi si
trovano al confine tra diverse forme di comunicazione: il dramma, il
racconto interattivo, il gioco, la festa. Il termine "performance"
esprime bene il senso della rappresentazione collettiva e della
interpretazione soggettiva.
Il GdR ha trovato un impulso
decisivo (sebbene ancora numericamente non molto rilevante) nella
comunicazione multi-utente in rete. In Internet si trovano
moltissimi programmi che mettono in comunicazione tra di loro i
computer creando una spazio virtuale condiviso in cui gli utenti
possono interagire. Questo concetto di "realtà discorsiva condivisa"
si applica sia alla chat, in cui gli utenti "chiacchierano" tra di
loro in un canale riservato che diventa metaforicamente una stanza,
quanto ai MUD (Multi-User Dimension) in cui i giocatori
interagiscono con i loro personaggi in veri e propri ambienti
virtuali complessi basati su messaggi di testo o su grafica
bidimensionale e tridimensionale.
Anche la forma più
semplice e consueta di "comunicazione mediata dal computer",
la e-mail, viene utilizzata per il GdR in rete, dando
vita a interessanti esperimenti di scrittura collettiva.
Pathos , ad esempio, è un'esperienza unica in questo
senso: la creazione condivisa di un mondo narrativo tra 200
giocatori che prosegue da tre anni e che ha prodotto una
sterminata quantità di materiali testuali, sia nella forma più
consueta del racconto che in vere e proprie strutture
sperimentali che vanno dalla trascrizione "asincrona" dei
messaggi e-mail alla scrittura "sincrona" utilizzando
direttamente il browser di navigazione.
Molti di questi materiali si
configurano in una forma che possiamo chiamare di "letteratura
interattiva", spogliando il termine letteratura della connotazione
un po' romantica di "produzione artistica". La loro peculiarità
nasce dal fatto di essere un prodotto collettivo. Non è l'opera di
un autore, ma di una vera e propria interazione tra diversi autori.
E' il frutto di una intelligenza collettiva.
Il gioco di
narrazione e di interpretazione è probabilmente quanto di più vicino
ci possa essere all'idea che aveva Schiller di realizzazione totale
dell'essere umano attraverso il gioco. La reciprocità del gioco
indicata da Schiller si ritrova pienamente nella narrazione
collettiva, perché i mondi possibili del GdR nascono necessariamente
dalla armonizzazione (difficile e quindi negoziata) tra l'impulso
creativo di ciascuno, la supremazia del desiderio, e il rispetto
dell'altro, la supremazia della ragione.
La creazione dei
"mondi possibili" è anche un modo per sperimentare le potenzialità
di un essere umano al di fuori delle limitazioni della realtà
fattuale. C'è una parte di vita non realizzata in ciascun essere
umano che chiede di essere vissuta. Gli artisti, gli scrittori che
sentono nascere dentro di sé i personaggi che poi prenderanno vita
nella narrazione, sono soltanto la parte emergente di un desiderio
diffuso, il desiderio di vivere l'avventura di un "mondo
possibile".
Il gioco delle identità e dei mondi virtuali è la
rivendicazione del diritto al gioco come espressione della libertà
soggettiva contro le costrizioni del tempo, dello spazio e dei
valori sociali. Ecco dunque il fascino che esercita il rischio, il
mito dell'eroe, il superamento dei limiti, la violenza. Quanto più
nella società si riducono, almeno tendenzialmente, le sfere
primordiali di interazione sociale, legate all'incertezza,
all'imprevedibilità, alla vertigine, allo smarrimento che si prova
ad uscire dal mondo, al desiderio di sottrarsi alle norme, al
piacere dionisiaco del disordine, tanto più cresce il bisogno di
reintegrare nel vissuto ciò che è stato irrimediabilmente perduto e
che invece è una parte irrinunciabile del nostre essere "umani": la
sorpresa.
Vivere nel "Giardino dei sentieri che si
biforcano", percorrere con la fantasia e l'immaginazione le strade
che la realtà fattuale ha sbarrato, significa rinnovare dentro di sé
l'utopia del viaggio e della ricerca. I modelli ludici di fantasia
permettono di compiere questo viaggio insieme.
Riferimenti bibliografici
Bencivenga, E.,
Giocare per forza. Critica della società del divertimento ,
Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1995. Caillois, R., I
giochi e gli uomini. La maschera e la vertigine, Bompiani,
Milano, 1981, Duflo, C., Le jeu. De Pascal a
Schiller, PUF, Paris, 1997. Giuliano, L., In principio
era il drago, Proxima, Roma, 1991. Giuliano, L., I padroni
della menzogna. Il gioco delle identità e dei mondi virtuali,
Meltemi Ed., Roma, 1995. Giuliano, L., Areni, A., La
maschera e il volto, Proxima, Roma, 1992.
Levy, P., L'intelligenza collettiva, Feltrinelli, Milano,
1996. Schechner, R., La teoria
della performance, Bulzoni Ed., Roma, 1984. Turner, V.,
Dal rito al teatro, Il Mulino, Bologna, 1986. Winnicot,
D.W., Gioco e realtà, Armando Ed., Roma,
1971.
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